domenica 14 dicembre 2014

Leonardo e i bracieri dell'encausto

Per poter capire al meglio un artista come Leonardo, a volte bisogna studiarlo a piccole dosi.
Per esempio,  analizzando anche la prassi esecutiva delle sue opere.
Un po' di tempo addietro, affascinato dallo splendido sceneggiato Rai di Renato Castellani, ho scritto una sorta di Saggio breve o racconto "poco saggio" sul potenziale "performativo" e teatrale nascosto dietro la preparazione tecnica dell'affresco della Battaglia di Anghiari realizzata dal Maestro nella Sala del Gran Consiglio a Palazzo Vecchio.

A seguire un mio Leonardo estrapolato da un progetto in lavorazione...


Buona lettura..

Leonardo e i bracieri dell’encausto

I contesti storici più evoluti pongono l’accento al trainatore destabilizzante per eccellenza; all’artista, filosofo, scienziato che edulcora le feste di corte milanesi cinquecentesche, con olii di natura balsamica e roghi d’incenso, raccolti in bacili di creta grezza, sotterrati a mezzo carico in della terra disposta a formare una croce greca.
Dei candelieri oblunghi, opportunamente schermati dagli aiuti di scena con placche sagomate, (ondulanti i riflessi dell’ombra nelle porzioni laterali delle braccia cruciformi disposte al centro della sala-convitto), invitano Leonardo da Vinci ancora brizzolato e rado di una barba di mezza età ad introdurre i giochi e gli intrattenimenti con mottetti di gusto frivolo o indovinelli declamati per destare maggiore curiosità. Con le gambe snelle e confitte al suolo, al primo gesto conclamato dal pubblico, i tendaggi disposti a baldacchino si sollevano arcuandosi come di riflesso al moto concavo e convesso delle roteanti braccia del maestro, suggestionato dal soave sbocconcellare dei flauti di una melodia armoniosa.
Nel crescendo di un debordante flusso di figurini-mimi e satirizzanti figure androgine danzatrici non ci si risparmia in risa frenetiche, riconoscendo i Gonzaga di Mantova o l’impietrito Giano Bifronte da Montefeltro, raffigurante se stesso e la consorte così come li dipinse Piero della Francesca, solo attaccati per il naso.
Le affascinanti diatribe filosofiche di corte, come la più leggera festa di ricorrenza sopra citata, maturavano consapevolmente in chi n’era l’artefice, l’aspetto e l’enorme potere di fascinazione performatica. Assistere al semplice passaggio per le vie di Firenze di uomini come Leonardo, destava curiosità e ammirazione, riconoscendo le piene qualità estetiche di pieghe d’abito appuntate e morbide nel raso lucido.
Immaginare la Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio, sguarnita e priva delle commesse assegnate ai due epigoni del Rinascimento fiorentino, come territorio neutro dove dichiarare, sotto tutti gli aspetti scenico- progettuali, i propri assunti filosofici, ideologici e artistici, porta a pensare ogni gesto di Leonardo e di Michelangelo Buonarroti, intercalato dentro una sfida a singolar
in-tensone d’intenti. Due menti di pronta e dichiarata ridondanza estetica che si incontrano in un ring-laboratorio che farà molto discutere di sé. I molti aspetti pittorico-formali e contenutistici programmati nei due grandi affreschi raffiguranti la Battaglia di Anghiari (1504-1505) di Leonardo e la Battaglia di Cascina di Michelangelo, vanno a disintegrarsi nella mancata o parziale realizzazione degli stessi. Soprattutto è lo sfacelo pietoso dell’affresco leonardesco, che sembra voler suggerire che per meglio alleggerire il peso di una commessa commemorativa e celebrativa, andava strutturata “un’azione sperimentale”, che dalla scelta dell’apporto di Plinio, della tecnica ad affrescho per encausto, proponesse un’ideazione rivoluzionaria in loco apparente. Le figure inconciliabili dei due maestri, si disgiungono proprio lì dove si abbozza l’aspetto scenico-impalcaturiale, testimoniato dai famelici astanti che come il Vasari appuntavano ogni singolo proponimento di strutture di supporto a “pontate”, ansimando ad ogni sguardo storto dei due.
Quando Michelangelo, preferì abbozzare disegni e cartoni preparatori, lontano dal contesto architettonico pertinente, scegliendo dei modelli di guerrieri ignudi, unti e rinfrescati dalla rugiada e dagli albori di una mattina antecedente la battaglia, le spoglie sale del Consiglio, consigliarono e suggerirono a Leonardo di prendere lo spazio di petto.
Le bianche pareti lisce, spingono il novello sciamano alla preparazione di una mistura pittorica inedita, composta da resine miste segretamente preparate e olii naturali modificati per l’asciugatura repentina della calce.
Mettere insieme un centinaio di portatori e braccianti agricoli con lo scopo di creare un’èquipe di sostegno per le pesanti attrezzature, non deve essere stata un’impresa facile per Leonardo, sia dal punto di vista organizzativo sia da parte dell’establishment fiorentino, che si stupiva nell’assistere al corteo che in quei giorni varcava la soglia del Palazzo Vecchio.
Di giorno e di notte, sotto la parete destinata all’affresco michelangiolesco, il maestro da Vinci consulta vecchie pergamene e manoscritti di derivazione classica; rielabora e rimugina su un metodo operativo che gli permetta in un breve lasso di tempo di terminare ed essiccare il suo affresco.
Il giorno della messa in opera delle travi, disposte a formare quattro angoli di quarantacinque gradi ciascuno e un perimetro rettangolare distante un metro e mezzo dalla superficie pittorica, eseguita con parsimoniosa solerzia da parte di un gruppo d’aiuti, ai quali Leonardo ridefinisce le incerte stesure pittoriche allo “sfumato” del proprio stile, sembra conclamarsi per le vie e i mercati del lungarno come l’anteprima spettacolare di un vasto circo di saltimbanchi e cantastorie da strada.
Grossi uomini irrigiditi in plasmate muscolature lucide di sudore, sfilano per Piazza della Signoria, sogghignando alla vista della Vittoria Donatelliana, ormai adombrata dall’enorme istallazione che da supporto impreziosisce l’affresco ancora misteriosamente celato da un tendaggio di panno rosso.
Lo spazio, d’inesauribile suggestione, è rischiarato in tutta la sua lunghezza da piccole fiaccole disposte alle pareti, dove giù dabbasso dormono gli aiuti forzuti, vicino a larghe zolle di paglia e fieno mischiati insieme e corde di robusta maglia, realizzate dagli artigiani del corso dell’Aguillara.
“Si cocerà come un ovo” dice l’aiuto Sarchiapone, rivolgendosi al maestro che di rimando sembra accennare un leggero risolino, sicuro di una gabbia architettonica lignea provvista di carrucole, pronte a trainare enormi bracieri fondi e robusti e collaudati per le alte temperature.

Leonardo ritto al centro di fronte la parete imbandita comincia, con gesti parchi a disporre gli uomini lungo le corde dei bracieri e alle enormi ruote a stella per il sollevamento di questi ultimi.
Le fiamme secondo un’attenta programmazione, devono lambire leggermente il muro, lì dove opportunamente scostate dal tiro alla fune, ad occupare, secondo un movimento a pendolo l’intera superficie pittorica.
Con un sollevamento quasi millimetrico, i bracieri cominciano ad alimentare una fiamma spezzata e scomposta per l’umidità dell’austero ambiente, che secondo un fulmineo pensiero di Leonardo è immediatamente rivolta con il solo sguardo ad una livella invisibile che facendo capo al tetto delle fiamme più alte, deve in eguale misura produrre lo stesso calore.

Qualcosa subito non va. Le fiamme non possiedono quella larga distribuzione che possa estendere il calore con maggiore uniformità. Alcune porzioni dell’affresco rimangono umide sgretolandosi subito lì dove il calore ha essiccato la materia pittorica.
Il panico comincia a diffondersi tra gli aiuti che urlano, dalla sala al corridoio antistante, il nuovo ordine del maestro - più fuoco!
I grossi bracieri, con un immane sforzo muscolare, nel girare all’inverso le ruote a stella, saltando velocemente da un punto all’altro, sono ricondotti al suolo ed alimentati con grossi fasci di fieno ancora raccolti nei cordoni. Le fiamme da terra lambiscono alte quasi sino al soffitto, rischiarando dall’esterno del palazzo le uniche stanze stracolme di gente che impazzano e ansimano al progressivo distacco di porzioni di volti e alabarde pittoriche.
Smorfie truculente sembrano solcare il volto di Leonardo, ormai perso in quella baraonda incontrollata, in quel turbinio d’esclamazioni e imprecazioni che nulla hanno di umano al pari delle poltiglie grumose dei cavalli dipinti accartocciati in un ammasso informe.
Le ultime speranze sfiorano ancora le lingue di fuoco alla parete lacrimosa nell’alternarsi casuale del sollevamento delle braci, ormai pericolosamente troppo vicine al soffitto.
L’esperienza di Leonardo al di là del negativo risultato, porta a riflettere sull’aspetto simbolico e al mito che di quest’autore si e costruito nei secoli a venire. Azzardando un parallelo con le ricerche estetiche dell’arte contemporanea, si scopre la coincidente similitudine di un percorso volto ad una relazione sinergica con il sociale, con le modalità costruttive e organizzative di una comunità laica e imprenditoriale, se non anche con l’operatività di un metodo scientifico di verifica sperimentale.
L’appellativo d’epigono del Rinascimento maturo, somigliante al più attuale artista cosmopolita-totalizzante delle moderne società informatizzate, vale più per Leonardo che per altri suoi contemporanei. Non solo per i diversi interessi che il maestro coltivava, ma per la progettuale relazione che di questi ultimi circoscriveva il suo complesso mondo d’esperienze sensibili.
Fruire la propria esistenza come un progressivo lavoro d’archiviazione progettuale, relegando ad un’operatività virtuale l’attendibile risultato finale, accosta quest’artista con i moderni sacerdoti multimediali, che usano internet, per estendere il cosciente dominio dell’idea progettuale su tutti i canali di fruizione e comunicazione diretti, su quei contesti di natura democratica dove naturalizzare la consapevolezza di una presenza contributiva ai saperi dello scibile umano.
Maturando le procedure d’archiviazione esperienziali-esecutive, la concretezza di singoli momenti-performatico-visuali, lascia poche testimonianze oggettuali; pochi strumenti e supporti come le notevoli invenzioni belliche o lo scarso numero di dipinti pervenutoci che della fluviale immaginazione creativa di Leonardo perdura solo nella nomenclata stesura dei codici enciclopedici.
Questo spirito liberale, avulso alla settarizzazione dei saperi, mira ad una progettuale coesione degli stessi nell’empirica riorganizzazione e rinomenclatura accostabile all’odierno ipertesto informatico-nomadico-non lineare, se non anche all’Opera Aperta di Umberto Eco, scevra da qualsiasi limitazione evolutiva-temporale-consecutiva e interpretativa.
La risoluzione dell’opera incompiuta da Leonardo, sulla Battaglia di Anghiari, vive dietro le barriere di un criticismo pedante e di senso compiuto che depone le armi in favore di risoluzioni più attendibili come la romanzesca androginia del sorriso della Gioconda, tralasciando l’enorme aspetto effimero che nel teatro o nella realizzazione di macchine respiratorie-vegetative, trovava l’affascinante compiutezza del non realizzabile.


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